La visione dei Preraffaelliti

di Antonia Buongiorno

Appena si varcano le sale della mostra Preraffaelliti – Rinascimento moderno del Museo Civico di Forlì, ci si sottrae dal frenetico presente, per immergersi in un’atmosfera sospesa nel tempo e nello spazio. 

La collezione raccoglie una notevole quantità di opere d’arte ed è la più importante e vasta che sia mai stata allestita sino ad ora sul tema in Italia. Tra le creazioni esposte possiamo ammirare dipinti, sculture, arazzi, e oggettistica finemente decorata, sussurri del clima che si respirava tra le schiere di intellettuali, artisti e letterati di fine ‘800 ed inizi ‘900. Come molte correnti artistiche, i Preraffaelliti suggellarono una cesura, che però non avvenne ai danni del passato, bensì a quelli del presente. All’epoca esperirono un vero e proprio trauma, al punto che ripudiarono la singultante civiltà occidentale collassante su sé stessa. Disconoscevano le depauperate derive arrivistiche dei loro contemporanei, rei di essere dimentichi della gloria delle fragilità umane, delle stoiche virtù, oltre che delle coriacee emozioni; al medesimo modo, aborrivano le prospettive che la società moderna di allora stava calcando: rifuggendo dall’arido tecnicismo industriale e scientifico, ripercorrono le remote vestigia di quegli ancestrali maestri che avevano raggiunto il massimo fulgore creativo. Giocarono con i fili del tempo, plasmando matericamente una virginea dimensione, e ripiegati su loro stessi subissamento introspettivo, destarono la più alta essenza umana. 

Le vicende storiche e le produzioni mortali incastonate nella Grecia antica, nel Medioevo e nel Rinascimento diventano muse ispiratrici per la tessitura di una dimensione altra, anacronistica nei contenuti, innovatrice per portata: viene da alcuni considerata come la prima avanguardia che diede slancio ad Art Nouveau e Simbolismo, susseguenti divenire artistici. 

La Confraternita dei Preraffaelliti, fondata nel 1848 da esponenti come Dante Gabriel Rossetti, Hunt e Millais, è una corrente transnazionale e interdisciplinare, che ha sunto linfa da Bibbia, mitologia, componimenti poetici, poemi epico-cavallereschi o di forte matrice religiosa, fiabe e perle narrative. 

Reputo suggestivo e contemporaneamente efficace da parte degli ideatori della mostra, l’aver introdotto lo spettatore in una sala propedeutica all’assorbimento del sostrato figurativo che ha stimolato la loro fantasia: soventi volte viene ricordato come l’Italia, con le sue ferventi e feconde città dell’età aurea rinascimentale, grazie alla Prima generazione di artisti e alla Seconda generazione, sia stata una forza genitrice della produzione artistica che ha capillarmente innervato la nostra penisola e il Regno Unito. 

A titolo esemplificativo e chiarificante, riporto un paio di esempi che esprimono la loro sfaccettata fecondità.

F. C. Cowper, Vanità, olio su tavola, 1907 (Credits: michelebuonarottietornato.com)

Nel dipinto Vanità, realizzato nel 1907, Cowper riprende una tematica ricorrentemente trattata nel Rinascimento, ed in particolar modo nelle nature morte, la vanitas: viene lanciato un monito al fruitore sulla caducità del tempo e sulla corruttibilità a cui è incatenato il sensibile, che inevitabilmente appassirà. Le effimere esistenze umane vengono così messe sull’attenti dall’attorniarsi da eccessivi beni e smodate ricchezze, che sviano l’individuo dal perseguire più alti fini e nobili intenti. E come la Bibbia ricorda che ‘tutto è vanità’, Cowper ci mostra una giovane donna che è allegoria dell’imbellettato vanesio: l’alterigio profilo, lo sguardo sottraentesi di sussiego che si posa sullo specchio dove rimira la sue fanciullesche e affascinanti forme; vesti ricamate pregiate e gioielli enfatizzano il superfluo esibirsi, mentre lo sfondo cupo adorno di grappoli di uva nera, avvolge la brillante e serica figura, rimarcando l’ineluttabilità a cui questa è appesa: lo sfiorimento delle sue fattezze e la cessazione del suo esistere.

Edward Burne-Jones, Il principe entra nella foresta (La serie di Rosaspina), olio su tela, 1871-1873 (Credits: Wikimedia Commons)

Jones nella serie di quattro dipinti The legend of Briar Rose, realizzati tra il 1885 e il 1890, attinge alla Bella addormentata dei fratelli Grimm per inscenare il momento in cui il principe, vinte le avversità della selva di rovi, si fa strada tra la mordace florescenza al fine di destare dal centenario sonno la principessa. Egli è l’unico elemento attivo della scena e padrone di sé: la sua figura eretta si ferma innanzi alla muta immobilità collettiva che gli si presenta. Rose selvatiche e ombrosi rami ritorti ghermiscono e si avvitano sui corpi esanimi della corte e dei cavalieri, imprigionati nell’assopimento indotto dall’alito di una malìa vendicativa: i capi son reclinati, gli arti abbandonati, i visi distesi dalle pieghe letargiche dei sogni, fulgide le armature, pesanti i drappi. La principessa, preda delle rose che avidamente muovono verso le sue membra, giace sul letto, inabissata tra gli onirici flutti. Jones opta per non mostrare il bacio del vero amore, negando allo spettatore la lieta conclusione: si rimane conseguentemente invischiati in quel mondo saturo e intorpidito, che non annuncia pertugio disvelativo alcuno.

Jimmy "Barbecue" Cherizier, 2023 (Credits: Wikimedia Commons)

Consiglio dunque a chi ne avesse l’occasione, di constatare in prima persona le amenità silvane, i campestri idilli e le rovine gotiche, in cui posano con fuggevole e nostalgica delicatezza, figure in bilico tra il sogno e la veglia.